TRIBUNALE DI SALERNO 
                   Ufficio del Giudice monocratico 
                       Seconda sezione penale 
 
    Il giudice, dott. Giovanni Rossi,  nell'ambito  del  procedimento
penale indicato in epigrafe, a carico di N.P., nato a ... il  ...,  e
S.A., nato a ... il ..., imputati, rispettivamente, dei reati di  cui
agli articoli 595 del codice penale e 13, legge n.  47/1948  (il  N.,
quale autore dell'articolo  giornalistico),  nonche'  57  del  codice
penale (il S., quale direttore responsabile del quotidiano «...»); 
    Vista   l'istanza   di   legittimita'   costituzionale   avanzata
all'udienza del 12 marzo 2019 dalla difesa degli imputati; 
    Letta la memoria difensiva, ex art. 121 del codice  di  procedura
penale, depositata in cancelleria dalle costituite parti civili; 
 
                               Osserva 
 
1. La questione di legittimita' costituzionale sollevata nel caso  di
specie. 
    Il difensore di fiducia degli imputati ha sollevato la  questione
di legittimita' costituzionale dell'art. 13 della  legge  8  febbraio
1948, n. 47 (contestata al N. al capo A), in quanto, alla luce  della
costante e consolidata giurisprudenza in materia della Corte  europea
dei diritti dell'uomo (d'ora in poi, anche Corte di  Strasburgo),  la
citata norma incriminatrice, in relazione alla pena detentiva da essa
stabilita (da uno a sei anni di reclusione, congiuntamente alla  pena
pecuniaria della multa), sarebbe in palese contrasto con il parametro
interposto dell'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali,  rilevante  ai
sensi  dell'art.  117,  comma  l  della  Costituzione,  nonche'   con
l'analogo art. 21 della Costituzione italiana. 
    Precisamente,  secondo  l'assunto  difensivo,   anche   la   sola
previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva
in caso di diffamazione a mezzo stampa come  prevista  dall'art.  13,
legge n.  47/1948  -  comporterebbe  una  limitazione  eccessiva  del
diritto  convenzionalmente  e   costituzionalmente   tutelato   della
liberta' di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista,
incompatibile  con  l'art.  10  della  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
come costantemente  interpretato  dalla  giurisprudenza  della  Corte
europea dei diritti dell'uomo. 
    A tale ultimo riguardo, in  particolare,  a  sostegno  delle  sue
argomentazioni,  la  difesa  richiama  la  recente   sentenza   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali del 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia,  nonche',
tra  le  altre,  la  sentenza  della  Convenzione  europea   per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  del
24 settembre 2013, Belpietro c.  Italia.  In  entrambe  le  pronunce,
infatti, la Corte europea dei diritti dell'uomo, condannando l'Italia
per  violazione  dell'art.  10  della  Convenzione  europea  per   la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'  fondamentali  ha
ribadito che la sanzione  della  reclusione  -  pur  condizionalmente
sospesa - e' compatibile con la liberta'  convenzionalmente  tutelata
dal citato art. 10 soltanto «in casi eccezionali», cioe' quando altri
prevalenti diritti fondamentali possono essere lesi, come ad  esempio
nei discorsi d'odio e di incitazione alla violenza. 
2. La rilevanza della q.l.c. 
    Preliminarmente, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953,
n.  87,  deve  essere  valutata  la  rilevanza  e  la  non  manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata
dalla difesa degli imputati. 
    Ebbene, nella fattispecie de  qua,  e'  di  palmare  evidenza  la
concreta rilevanza della questione sottoposta  al  vaglio  di  questo
giudicante nell'ambito del procedimento penale in oggetto. 
    Allo stesso modo, inoltre, la questione non appare manifestamente
infondata,  per  le  argomentazioni  che   si   espliciteranno   piu'
approfonditamente  nel  prosieguo;  questione   che,   peraltro,   il
Tribunale ritiene di estendere, di ufficio, anche all'art. 595, comma
3, del  codice  penale,  non  essendo  sostanzialmente  divergenti  i
termini degli aspetti problematici in esame. 
    In  particolare,  circa   la   rilevanza   della   q.l.c.,   deve
evidenziarsi che nel caso di specie viene contestato agli imputati  -
ciascuno nella sua qualita' - proprio  il  reato  di  diffamazione  a
mezzo stampa di cui agli articoli 595 del codice penale  e  13  della
legge  8  febbraio  1948,  n.  47,  la  cui  condotta  criminosa   e'
richiamata, per relationem, per contestare al direttore  responsabile
della testata giornalistica il corrispondente reato omissivo ai sensi
dell'art. 57 del codice penale. 
    Con   l'articolo   di   giornale   addebitato   in   imputazione,
segnatamente, secondo l'ipotesi accusatoria, veniva  attribuita  alle
persone  offese  diffamate  una  condotta  determinata  (di  qui   la
contestazione dell'aggravante di cui all'art. 13 della  citata  legge
n.  47/1948),  poi  risultata  non  essere  vera  a   seguito   degli
accertamenti investigativi. 
    A tale proposito, per comprendere  appieno  la  palese  rilevanza
della q.l.c. proposta, e' appena il caso di riportare testualmente in
questa sede l'editto accusatorio, da cui si evince chiaramente che la
fattispecie concreta sottoposta  all'esame  di  questa  A.G.  e'  una
condotta  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  con  la  quale  veniva
attribuito un fatto  determinato,  come  tale  rientrante  sia  nella
disciplina generale della diffamazione dell'art.  595,  comma  3  del
codice penale, sia nella disciplina speciale dell'art. 13 della legge
8 febbraio 1948, n. 47. 
    Queste le imputazioni in contestazione: 
        «N. 
        A) del reato p. e p. dagli articoli 595 del codice  penale  e
13, legge n. 47/1948,  perche'  sul  "...",  inserto  del  quotidiano
"...",  offendeva  la  reputazione  di  C.B.  e  C.G.,  redigendo  un
articolo, il cui occhiello riportava:  "Sequestrata  un'area  di  300
metri quadri, presi B. e G.C., dell'omonima  cosca";  il  cui  titolo
indicava: «Chiuso parking abusivo  dei  clan»  ed  il  cui  contenuto
riportava: «Gli autori dello scempio  che  si  consumava  nel  centro
della citta' di ... sono due affiliati al clan ... di ... I  militari
... hanno fatto scattare le manette ai  polsi  di  B.C.  e  di  G.C.,
entrambi ritenuti elementi di  spicco  del  clan  camorristico  "..."
operante nel ... ed in vari comuni dell'area ... e  referenti  locali
per ... del  clan  camorristico.  ...  Il  clan  ...  lentamente  sta
occupando i territori ... La cosca e' dura a morire ... Negli  ultimi
tempi, grazie all'alleanza con il clan ..., i ...  si  sono  spostati
nel ... con attivita' di riciclaggio e spaccio di  droga,  laddove  i
..., per come puo' evincersi dagli atti di indagine  della  Direzione
distrettuale antimafia di  Napoli,  non  risultavano  affatto  essere
affiliati al citato clan. 
    In Fisciano il 27 maggio 2012, sede della tipografia. 
        S. 
        B) del reato p. e p. dall'art. 57 del codice  penale  perche'
quale  direttore  responsabile  del   quotidiano   "...",   omettendo
colposamente di' esercitare il necessario controllo, non impediva che
il N. consumasse il delitto di cui al capo A). 
    In Napoli, in  epoca  immediatamente  antecedente  al  27  maggio
2012». 
    Di conseguenza,  tenuto  conto  dell'ipotesi  accusatoria  appena
richiamata,  trattandosi  evidentemente  di  un'ipotesi  concreta  di
diffamazione a mezzo stampa, e' doveroso che il  giudizio  di  merito
non possa essere  definito  a  prescindere  dalla  risoluzione  della
sollevata questione di  legittimita'  costituzionale  concernente  le
disposizioni legislative - di cui agli articoli 595 del codice penale
e 13, legge 8 febbraio 1948,  n.  47,  riguardanti  appositamente  la
fattispecie criminosa della  diffamazione  a  mezzo  stampa,  essendo
particolarmente rilevante la natura della sanzione  -  detentiva  e/o
pecuniaria -  che  eventualmente  il  giudice  dovrebbe  irrogare  in
concreto in caso di condanna. 
    Pertanto, secondo il Tribunale, senza alcun dubbio deve ritenersi
sussistente la concreta rilevanza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale delle disposizioni legislative di  cui  agli  articoli
595 del codice penale e 13, legge 8 febbraio 1948, n. 47. 
3. Non manifesta infondatezza della q.l.c. 
    Passando al secondo requisito determinante per la  proponibilita'
della  questione  di  legittimita'  costituzionale  in  esame,   deve
evidenziarsi che quest'ultima, a giudizio  del  Tribunale,  non  puo'
ritenersi manifestamente infondata. 
    Nella fattispecie concreta, piu' in particolare, e' evidente  che
la questione di legittimita' costituzionale attenga  alla  necessita'
di un adeguamento del  diritto  interno,  segnatamente,  del  diritto
penale in  materia  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  al  generale
principio di  cui  all'art.  10  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta',  cosi'  come
costantemente interpretato  dalla  Corte  di  Strasburgo,  anche  nei
recenti giudizi contro l'Italia (cfr. Sallusti c. Italia e  Belpietro
c. Italia cit.). 
    Nello   specifico,    considerato    che    l'istante    sostiene
l'illegittimita' dell'art. 13 della legge 8 febbraio 1948, n.  47  in
quanto  -  nella  parte  in  cui  prevede  la  pena  detentiva  -  la
disposizione citata violerebbe, oltre all'art. 21 della Costituzione,
il generale principio della liberta' di espressione di  cui  all'art.
10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta', come interpretato dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo, quale parametro interposto ai sensi dell'art. 117,
comma 1 della Costituzione, e' compito iniziale di questo  giudicante
individuare  una  interpretazione  convenzionalmente  conforme  della
disposizione  scrutinata,  per  poi  valutare,  solo  in  un  secondo
momento, contemperati  tutti  gli  altri  diritti  costituzionali  in
bilanciamento,  se  effettivamente  la   violazione   del   principio
convenzionale in oggetto determini realmente anche la  illegittimita'
costituzionale della disposizione legislativa nazionale. 
    Difatti, come ribadito a piu' riprese dalla giurisprudenza  della
Corte  costituzionale  sul  punto,  «L'interpretazione  del   giudice
comune,  ordinario  o  speciale,  orientata  alla  conformita'   alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali - le cui prescrizioni e  principi  appartengono
indubbiamente ai vincoli derivanti  da  obblighi  internazionali  con
impronta  costituzionale  (quelli  con  «vocazione   costituzionale»:
sentenza n.  194  del  2018)  -  non  implica  anche  necessariamente
l'illegittimita'   costituzionale    della    disposizione    oggetto
dell'interpretazione  per  violazione  di  un  principio  o  di   una
previsione della Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e delle  liberta',  quale  parametro  interposto  ai  sensi
dell'art. 117, primo comma della Costituzione. E' ricorrente che  gli
stessi  principi  o   analoghe   previsioni   si   rinvengano   nella
Costituzione e nella Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta',  cosi'   determinandosi   una
concorrenza di tutele, che pero'  possono  non  essere  perfettamente
simmetriche e sovrapponibili; vi puo' essere uno  scarto  di  tutele,
rilevante soprattutto laddove la giurisprudenza della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo  riconosca,  in  determinate  fattispecie,  una
tutela piu' ampia. Questa Corte ha gia' affermato che,  quando  viene
in rilievo un  diritto  fondamentale,  «il  rispetto  degli  obblighi
internazionali [...] puo' e deve [...] costituire strumento  efficace
di ampliamento della tutela stessa» (sentenza n. 317  del  2009).  E'
quanto si e' verificato da ultimo (sentenza  n.  120  del  2018)  con
riferimento al diritto di associazione sindacale, tutelato sia  dalla
Costituzione  (art.  39)  che  dalla  Convenzione  europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(art.  11).  Non  c'e'  pero',  nel  progressivo   adeguamento   alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta', alcun automatismo, come risulta gia'  dalla  giurisprudenza
di questa Corte, stante, nell'ordinamento nazionale,  il  «predominio
assiologico della  Costituzione  sulla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta'» (sentenza n.  49
del 2015). Da una  parte,  la  denunciata  violazione  del  parametro
convenzionale interposto, ove  gia'  emergente  dalla  giurisprudenza
della Corte  EDU,  puo'  comportare  l'illegittimita'  costituzionale
della norma interna sempre che nelle pronunce  di  quella  Corte  sia
identificabile un «approdo giurisprudenziale  stabile»  (sentenza  n.
120 del 2018) o un «diritto consolidato» (sentenze n. 49 del 2015  e,
nello stesso senso, n. 80 del 2011). Inoltre, va  verificato  che  il
bilanciamento,  in  una  prospettiva  generale,  con  altri  principi
presenti nella Costituzione non conduca a una valutazione di  sistema
diversa - o comunque non necessariamente  convergente  -  rispetto  a
quella sottesa all'accertamento, riferito al caso  di  specie,  della
violazione di un diritto fondamentale riconosciuto dalla  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e  delle  liberta'.
Va infatti ribadito che, «[a]  differenza  della  Corte  EDU,  questa
Corte [...] opera una  valutazione  sistemica,  e  non  isolata,  dei
valori coinvolti dalla norma di volta in  volta  scrutinata,  ed  e',
quindi,  tenuta  a  quel  bilanciamento,  solo  ad  essa   spettante»
(sentenza n. 264 del 2012); bilanciamento in  cui  si  sostanzia  tra
l'altro il «margine di apprezzamento» che compete allo  Stato  membro
(sentenze n. 193 del 2016, n. 15 del 2012 e n. 317 del 2009)»  (cfr.,
testualmente,  in  motivazione,  la  recente  sentenza  della   Corte
costituzionale  n.  25/19  del  24  gennaio  2019,   pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale il 6 marzo 2019). 
    In estrema sintesi, la richiamata giurisprudenza della  Consulta,
in  materia  di  violazione  dei  principi   e   prescrizioni   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta',  ha  cristallizzato  le  seguenti   regole   generali:   a)
un'interpretazione  convenzionalmente  orientata  della   norma   non
comporta automaticamente una sua  illegittimita'  costituzionale,  in
quanto puo' esservi  nell'ordinamento  interno  un  principio  o  una
disposizione che tuteli un principio analogo a quello  oggetto  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali  e  che  si  ritiene  violato;  b)  quando  la
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in  materia
di diritti fondamentali, riconosca una tutela piu' ampia al principio
violato in questione, il rispetto degli obblighi internazionali -  di
cui all'art. 117, comma 1 della Costituzione - diventa uno  strumento
efficace per ampliare la tutela della disciplina  nazionale  e  cosi'
adeguarla  alla  normativa   della   Convenzione   europea   per   la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle  liberta';  c)   tale
ampliamento e adeguamento di tutela non e'  pero'  automatico  -  con
conseguente dichiarazione di incostituzionalita' della norma interna,
ai sensi dell'art. 117, comma 1 della Costituzione, in  relazione  al
parametro convenzionale interposto violato - ma  subordinato,  da  un
lato, al riconoscimento dell'esistenza di un orientamento  stabile  e
consolidato della giurisprudenza  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo sul punto, dall'altro, all'assenza di un diverso  principio
o  valore  costituzionalmente  tutelato  che,  in  un   bilanciamento
sistematico di  interessi,  sia  prevalente  e  non  convergente  con
l'interpretazione convenzionalmente orientata. 
    Orbene, nel caso  di  specie,  a  parere  di  questo  giudicante,
ricorrono  tutti  i  requisiti  richiesti   dalle   regole   generali
determinate dalla Corte costituzionale e sopra indicati, sub a), b) e
c), per poter validamente  sollevare  la  questione  di  legittimita'
costituzionale delle disposizioni legislative in parola. 
    Piu' in particolare, come si  vedra'  subito  dopo,  il  generale
principio e diritto della liberta' di espressione  sancito  dall'art.
10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo  e  delle  liberta',  oggetto   della   giurisprudenza   di
Strasburgo, trova nell'ordinamento nazionale un principio  e  diritto
speculare nella liberta' di manifestazione di pensiero - e di  stampa
- costituzionalmente garantita dall'art. 21 della Costituzione. 
    Pertanto, considerato che nel nostro ordinamento  interno  l'art.
21 della Costituzione garantisce una tutela - primaria e fondamentale
- analoga  alla  liberta'  di  espressione  del  pensiero  assicurata
dall'art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta', e' chiaro che  la  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo formatasi  su  tale  ultima
disposizione possa e  debba  essere  utilizzata  quale  strumento  di
ampliamento e adeguamento del diritto interno, in quanto con essa  si
riconosce  una  forma  di  tutela  assai  ampia,  e  certamente  piu'
favorevole,   del   diritto   di    manifestazione    di    pensiero,
specificamente,  nella  parte  in  cui  esclude  la  possibilita'  di
prevedere - anche solo in  astratto  -  l'applicazione  di  una  pena
detentiva  per  la  diffamazione  a  mezzo  stampa   realizzata   dai
giornalisti, fatti salvi «i casi eccezionali». 
    In tal modo, quindi, risultano  pienamente  integrati  i  profili
richiesti sub a) e b). 
    Per  quanto  riguarda,  invece,  la  sussistenza  dei   requisiti
richiesti sub c), ovvero l'esistenza di una  costante  e  consolidata
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in  materia,
da  un  lato,  e  l'assenza  di  contrastanti   interessi   nazionali
prevalenti, dall'altro, deve essere osservato quanto segue. 
    In  primo  luogo,   deve   evidenziarsi   che   la   recentissima
giurisprudenza della Corte di Strasburgo,  formatasi  proprio  in  un
caso italiano e richiamata anche dai difensore istante (caso Sallusti
c. Italia), si colloca nell'ambito  di  una  costante  giurisprudenza
della Corte europea dei diritti dell'uomo in materia di  diffamazione
a mezzo stampa, secondo la quale, in particolare,  l'ingerenza  nella
liberta' di espressione  dei  giornalisti  e'  in  palese  violazione
dell'art. 10  della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  quando  preveda
l'applicazione di una pena  detentiva  al  di  fuori  delle  «ipotesi
eccezionali»,  ove  tale  sanzione  non  e'  necessaria  e   non   e'
proporzionata rispetto al diritto perseguito e tutelato. 
    In secondo luogo, poi, non si ravvisano  nel  nostro  ordinamento
interno  dei  principi,  valori  e/o  diritti   costituzionali   che,
all'esito di un giudizio di bilanciarnento di interessi in conflitto,
possano ritenersi concretamente prevalenti rispetto  al  fondamentale
diritto di manifestazione del  pensiero  di  cui  all'art.  21  della
Costituzione, analogo alla generale liberta' di  espressione  di  cui
all'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta', il quale, conseguentemente,  non  puo'  e
non deve essere minimamente compresso con la minaccia  -  anche  solo
astratta - di una pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo
stampa, fatti salvi ovviamente «i casi eccezionali» ritenuti tali dal
legislatore. 
    3.1. Circa il  primo  profilo  (dell'esistenza  di  una  costante
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo  in  materia
di diffamazione a mezzo stampa), piu' nello specifico,  e'  opportuno
qui riportare, da una parte, il testo dell'art. 10 della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e  delle  liberta',
quale parametro interposto ai sensi  dell'art.  117,  comma  1  della
Costituzione, dall'altra, quanto recentemente ribadito  espressamente
dalla stessa Corte europea dei diritti dell'uomo nel  ricordato  caso
Sallusti  c.  Italia  e  dalla  costante   giurisprudenza   Edu   ivi
richiamata. 
    L'art. 10 della  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali prevede che: «1  Ogni
persona ha diritto alla liberta' d'espressione. Tale diritto  include
la liberta' d'opinione e la liberta'  di  ricevere  o  di  comunicare
informazioni o idee senza che vi  possa  essere  ingerenza  da  parte
delle autorita' pubbliche e senza limiti di frontiera. 2  L'esercizio
di queste liberta', poiche' comporta doveri e  responsabilita',  puo'
essere sottoposto alle formalita', condizioni, restrizioni o sanzioni
che sono previste dalla legge e che costituiscono misure  necessarie,
in una societa' democratica, alla sicurezza nazionale, all'integrita'
territoriale o alla pubblica sicurezza,  alla  difesa  dell'ordine  e
alla prevenzione dei reati, alla  protezione  della  salute  o  della
morale, alla protezione della reputazione o dei diritti  altrui,  per
impedire la divulgazione di informazioni riservate  o  per  garantire
l'autorita' e l'imparzialita' del potere giudiziario». 
    Ebbene,  in  merito  all'interpretazione  di  tale  disposizione,
occorre rilevare che, con la citata pronuncia del 7  marzo  2019  nel
caso Sallusti  c.  Italia,  dopo  aver  precisato  che  la  questione
controversa sulla natura  della  sanzione  attiene  alla  valutazione
circa la reale «necessita' e proporzione» di una  pena  detentiva  in
caso diffamazione a mezzo  stampa,  quale  evidente  ingerenza  nella
liberta' di espressione, la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha
testualmente  ricordato  quanto  segue:  «51.  I  principi   generali
relativi  alla  necessita'  di   un'ingerenza   nella   liberta'   di
espressione sono riassunti nelle cause Morice  c.  Francia  [GC],  n.
29369/10, §§ 124-139, Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali  2015  e  Belpietro
(sopra citata, §§ 47-54, ndr, Belpietro c. Italia,  n.  43612/10,  24
settembre 2013). 52. In  particolare,  la  Corte  sottolinea  che  il
criterio della «necessita' in una  societa'  democratica»  esige  che
essa  determini  se  l'ingerenza  lamentata  corrispondesse   a   una
«pressante esigenza sociale», se i  motivi  addotti  dalle  autorita'
nazionali  per  giustificare  l'ingerenza   fossero   «pertinenti   e
sufficienti» e se la sanzione inflitta fosse «proporzionata  al  fine
legittimo perseguito» (si veda Belpietro, sopra  citata,  §§  49-50).
[...] 59. Benche' l'irrogazione delle pene sia in linea di  principio
una materia di competenza dei tribunali nazionali, la  Corte  ritiene
che l'irrogazione di una pena detentiva, ancorche'  sospesa,  per  un
reato connesso ai mezzi di comunicazione,  possa  essere  compatibile
con la liberta' di espressione dei giornalisti garantita dall'art. 10
della Convenzione soltanto in circostanze  eccezionali,  segnatamente
qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come,
per esempio, in caso di  discorsi  di  odio  o  di  istigazione  alla
violenza (si veda, Cumpana e Mazare c. Romania (GC], n.  33348/96,  §
115, Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e
delle liberta' fondamentali  2004-XI).  A  tale  riguardo,  la  Corte
rileva le recenti iniziative legislative  da  parte  delle  autorita'
italiane finalizzate, in linea con le recenti  pronunce  della  Corte
contro l'Italia, a limitare il ricorso a sanzioni penali per il reato
di diffamazione, e a introdurre un'importante misura positiva, ovvero
l'abolizione della pena della reclusione per il reato di diffamazione
(...)». 
    In altri termini, alla luce dei principi generali ricordati dalla
pronuncia in parola, secondo la Corte europea dei diritti  dell'uomo,
la compressione del diritto di espressione dei  giornalisti  mediante
l'applicazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a  mezzo
stampa,  benche'  in  astratto  non  incompatibile  con  il   diritto
convenzionale, deve considerarsi generalmente contraria  all'art.  10
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta', poiche' tale sanzione - di natura detentiva - risulta
di per se' eccessiva e sproporzionata, a meno che non ricorrano «casi
eccezionali» di gravi  lesioni  di  ulteriori  diritti  fondamentali,
quali,  a  titolo  solo  esemplificativo,  i  discorsi  d'odio  e  di
istigazione alla violenza. 
    Difatti, nel caso di specie, escludendo  la  sussistenza  di  una
tale ipotesi eccezionale, pur a fronte di un legittimo fine di tutela
dell'altrui reputazione, la Corte europea dei  diritti  dell'uomo  ha
ritenuto non giustificata la condanna a pena  detentiva  irrogata  al
Sallusti,  affermando  conclusivamente  che,   in   sostanza:   «Tale
sanzione, per  sua  stessa  natura,  ha  inevitabilmente  un  effetto
dissuasivo (si veda, mutatis mutandis, Kapsis e Danikas c. Grecia, n.
52137/12, § 40, 19 gennaio 2017). Il fatto che la pena detentiva  del
ricorrente sia stata sospesa non modifica tale conclusione, in quanto
la singola  commutazione  di  una  pena  detentiva  in  una  sanzione
pecuniaria  e'  una  misura  soggetta  al  potere  discrezionale  del
Presidente della Repubblica italiana.». 
    A tale riguardo, piu' in particolare, per comprendere  pienamente
il ragionamento giuridico costantemente svolto  dalla  Corte  europea
dei  diritti  dell'uomo  in  merito  alla  reale  natura  della  pena
detentiva comminata in astratto  in  caso  di  diffamazione  a  mezzo
stampa e, quindi, all'apprezzamento dell'effettiva proporzionalita' e
necessita' dell'ingerenza sulla liberta' di espressione  mediante  la
minaccia di tale pena, e' illuminante riportare  in  questa  sede  le
specifiche argomentazioni sostenute dalla Corte europea  dei  diritti
dell'uomo nella causa Cumpana e Mazare c. Romania,  n.  33348/96,  §§
113-115, come riportate testualmente - e  condivise  -  dalla  citata
sentenza Belpietro c. Italia, n. 43612/10 del 24  settembre  2013,  i
cui principi generali, come appena evidenziato, sono stati da  ultimo
interamente confermati e ribaditi proprio nella sentenza Sallusti  c.
Italia del 7 marzo 2019. 
    Con le predette argomentazioni, infatti,  la  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo afferma  espressamente  che:  «113.  Se  gli  Stati
contraenti hanno la facolta', se non il dovere, in  virtu'  dei  loro
obblighi  positivi  derivanti  dall'art.  8  della  Convenzione,   di
disciplinare l'esercizio della liberta' di  espressione  in  modo  da
garantire che la legge  tuteli  adeguatamente  la  reputazione  degli
individui, essi devono evitare, facendolo, di adottare misure  idonee
a dissuadere i media dallo svolgere il loro compito  di  avvisare  il
pubblico in caso di apparenti o presunti abusi dei pubblici poteri. I
giornalisti di inchiesta potrebbero mostrarsi reticenti a  esprimersi
su questioni di interesse generale (...) se  corrono  il  rischio  di
essere condannati, quando la legislazione prevede sanzioni di  questo
tipo per gli attacchi ingiustificati contro la reputazione altrui,  a
pene  detentive  o  che  comportano  il  divieto  di  esercitare  una
professione. 114. L'effetto dissuasivo che il timore di  sanzioni  di
questo tipo comporta per l'esercizio da parte dei  giornalisti  della
loro liberta'  di  espressione  e'  evidente  (...).  Nocivo  per  la
societa' nel suo complesso, fa  anch'esso  parte  degli  elementi  da
prendere   in   considerazione   in   sede   di   valutazione   della
proporzionalita' - e dunque della giustificazione  -  delle  sanzioni
inflitte (...). 115. Se la fissazione delle  pene  e',  in  linea  di
principio, appannaggio dei giudici nazionali, la Corte considera  che
una pena detentiva inflitta per un reato commesso  nell'ambito  della
stampa sia compatibile con la liberta' di  espressione  giornalistica
sancita dall'art. 10 solo in circostanze eccezionali, in  particolare
quando altri diritti fondamentali siano  gravemente  lesi,  come  nel
caso, ad esempio, della diffusione  di  un  discorso  di  odio  o  di
incitazione alla violenza (...).». 
    In definitiva, come emerge palesemente dal testo delle richiamate
motivazioni, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo, salvo  i
«casi eccezionali», la previsione di una pena detentiva per  i  reati
di diffamazione a mezzo  stampa  deve  essere  generalmente  ritenuta
sproporzionata e non giustificata, in quanto l'effetto  assolutamente
dissuasivo derivante gia' dalla semplice  minaccia  dell'applicazione
di tale sanzione - detentiva - risulterebbe di per se' eccessivamente
limitativo  della  liberta'  di  espressione  giornalistica  di   cui
all'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo e delle liberta'. 
    3.2. Circa il secondo profilo  (nella  specie,  l'assenza  di  un
valore  costituzionale  prevalente  e  contrastante  con  il  diritto
convenzionalmente tutelato), come gia' anticipato, e' appena il  caso
di ricordare nuovamente che il nostro ordinamento interno prevede una
disposizione analoga all'art. 10 della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta', in  particolare,
l'art.  21  della  Costituzione,  che,  al  pari  della  disposizione
convenzionale, garantisce un ruolo primario ed essenziale nella  vita
democratica del paese alla liberta' di manifestazione  del  pensiero,
in tutte le sue forme, quindi anche in quella giornalistica, tanto e'
vero che, al secondo comma,  la  disposizione  costituzionale  citata
tutela espressamente anche la liberta' di stampa. 
    Di converso, non sono ricavabili nell'ordinamento interno  valori
e/o principi costituzionali superiori che assumano, in via  generale,
prevalenza assoluta rispetto al diritto  di  cui  all'art.  21  della
Costituzione  e,  quindi,  anche  rispetto  al  fondamentale  diritto
convenzionale di cui all'art. 10 della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta',  cosi'  come
interpretato dalla Corte di Strasburgo. 
    Peraltro, il dato che non vi sia  nell'ordinamento  nazionale  un
interesse prevalente che  impedisca  di  adottare  un'interpretazione
convenzionalmente  orientata  delle   disposizioni   legislative   in
questione, e' dimostrato dalla circostanza storica che il legislatore
italiano, ormai da tempo, ha al suo esame diversi  disegni  di  legge
proprio per la modifica della disciplina sanzionatoria in materia  di
reati a mezzo stampa, anche in ossequio  delle  recenti  sentenze  di
condanna pronunciate contro l'Italia dalla Corte europea dei  diritti
dell'uomo in materia. 
    Ancora una volta, e' estremamente  emblematico  quanto  ricordato
testualmente dalla Corte europea dei diritti dell'uomo sul punto  nel
caso Sallusti c. Italia, ove si da' atto,  tra  l'altro,  del  parere
espresso dalla Commissione europea per la  democrazia  attraverso  il
diritto  (c.d.  «Commissione  di  Venezia»)  sulla  questione   della
compatibilita' della legislazione italiana in materia di diffamazione
con l'art. 10 della Convenzione: «32. In  data  9  novembre  2013  la
Commissione di Venezia, mediante Parere n.  715/2013  («Parere  sulla
legislazione italiana in materia di diffamazione») osservo'  che  era
in corso una riforma della legislazione in  materia  di  diffamazione
([...]):  le  modifiche  proposte   prevedevano,   inter   alia,   la
limitazione del ricorso a  disposizioni  penali,  l'abolizione  della
reclusione quale possibile pena e un importo massimo per le  sanzioni
pecuniarie, che mancava nell'art. 595 commi 3 e 4 del  codice  penale
(abrogato dal disegno  di  legge).  La  Commissione  di  Venezia  era
dell'opinione  che  le  sanzioni  pecuniarie   di   importo   elevato
costituissero «una minaccia avente un effetto dissuasivo  quasi  pari
alla reclusione» ma ricordo' anche che cio' doveva essere considerato
«un notevole miglioramento, in conformita' agli inviti del  Consiglio
d'Europa a sanzioni piu' miti per il reato di diffamazione».  33.  La
Commissione di Venezia, tuttavia, benche' soddisfatta delle modifiche
proposte, osservo' che il disegno di legge, presentato nel 2013,  era
ancora pendente dinanzi alla  Commissione  permanente  Giustizia  del
Senato». 
    Orbene, cio' ricordato, nonostante questi opportuni miglioramenti
profilati dallo stesso legislatore italiano, non puo'  che  prendersi
atto che, allo stato, nessuna modifica legislativa e' intervenuta  in
materia di reato di diffamazione a  mezzo  stampa,  che  continua  ad
essere punito, pertanto, con la pena detentiva  -  sola  o  congiunta
alla pena pecuniaria - proprio dagli articoli 595 del codice penale e
13, legge 8 febbraio 1948, n. 47 qui oggetto della q.l.c. in esame. 
    3.3. Volendo individuare  una  interpretazione  convenzionalmente
orientata, dunque, alla luce della giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo sopra analizzata, non  essendovi  principi  e/o
diritti  costituzionali  contrastanti  e  prevalenti,   si   dovrebbe
sostenere che la disposizione dell'art. 13, legge 8 febbraio 1948, n.
47,  punisca  con  la  pena  detentiva  -  congiuntamente  alla  pena
pecuniaria - esclusivamente le condotte diffamatorie a  mezzo  stampa
che rivestano i caratteri dell'eccezionalita',  ovvero  i  cosiddetti
«casi eccezionali» cui fa riferimento la  stessa  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo. 
    Tuttavia, in ossequio al generale  principio  di  tassativita'  e
determinatezza, quale corollario del supremo principio  di  legalita'
in materia penale sancito dall'art. 25  della  Costituzione,  non  e'
compito di questo giudice integrare la norma incriminatrice di questo
ulteriore requisito  normativa  dell'eccezionalita',  i  cui  precisi
contorni  e  confini,  peraltro,   dovrebbero   pur   sempre   essere
determinati puntualmente dal legislatore, cui spetta in via esclusiva
il potere di legiferare in materia  penale,  essendo  i  giudici,  ai
sensi dell'art. 101, comma 1 della  Costituzione,  soggetti  soltanto
alla legge. 
    A tale ultimo proposito, occorre precisare che  questo  Tribunale
e' consapevole che la giurisprudenza di legittimita' in materia -  il
cosiddetto diritto vivente - nelle occasioni in cui si e' pronunciata
in  materia  di  diffamazione  a  mezzo  stampa  ha   sostenuto   una
compatibilita' convenzionale e costituzionale  della  pena  detentiva
irrogata. 
    Sotto questo profilo, in particolare, e'  necessario  evidenziare
che, in quelle occasioni, la Cessazione ha asserito la compatibilita'
di una condanna a pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo
stampa ritenendo che, nei singoli casi di  specie,  ricorressero  gli
estremi delle «ipotesi eccezionali» di cui alla giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo. 
    Tuttavia, a seguito dei ricorsi dei condannati alla Corte europea
dei diritti dell'uomo, e'  stata  poi  la  stessa  giurisprudenza  di
Strasburgo a negare categoricamente  che  ricorressero  nei  casi  di
specie  le  «ipotesi  eccezionali»  invece  originariamente  ritenute
sussistenti dalla Corte di  Cassazione  (cfr.  Belpietro  c.  Italia,
Sallusti' c. Italia). 
    Sul  punto,  e'  significativo  ricordare  quanto   icasticamente
asserito da ultimo dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  in
merito alla decisione adottata dalla Corte  di  Cassazione  nel  caso
Sallusti c. Italia (di conferma della sentenza  di  condanna  a  pena
detentiva) circa la sussistenza di una «ipotesi eccezionale», poi, in
realta', negata in concreto dai giudici di Strasburgo: «Con  sentenza
del 26 settembre 2012, depositata  nella  pertinente  cancelleria  in
data 23 ottobre 2012, la Corte di Cassazione confermo' le conclusioni
della Corte di appello,  valutando,  inter  alia,  la  compatibilita'
della condanna e della pena inflitta alla luce  della  giurisprudenza
della Corte.  In  particolare,  la  Corte  di  Cassazione  tento'  di
giustificare l'irrogazione di una pena detentiva, sostenendo  che  il
caso   presentava   circostanze    eccezionali.    In    particolare,
l'irrogazione della pena detentiva  era  stata  giustificata  da  una
serie di fattori concorrenti, quali la sussistenza della  circostanza
aggravante  della  «attribuzione  di  un   fatto   determinato»;   la
personalita' del ricorrente, i suoi precedenti penali (in  quanto  il
ricorrente  era  recidivo)  e  il  fatto  che  la  pubblicazione   di
informazioni  false  aveva  leso  la   reputazione   del   G.C.,   un
magistrato». 
    Come anticipato, pero', non  condividendo  le  motivazioni  della
Cassazione, la  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo  non  ha  poi
ritenuto sussistente nel caso di specie alcuna «ipotesi eccezionale»,
come peraltro aveva gia' fatto anche nel precedente  caso  «Belpietro
c. Italia». 
    Detto tutto questo, e' evidente che la richiamata  giurisprudenza
di  legittimita'  non  possa  essere  presa  in  considerazione  come
parametro di interpretazione convenzionalmente  e  costituzionalmente
orientata, in quanto, come appena sottolineato, la stessa si  e'  poi
rivelata, a posteriori, contraria all'orientamento consolidato  della
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo in  materia,
che nelle due occasioni di condanna a pena detentiva per diffamazione
a mezzo stampa non ha  in  effetti  riconosciuto  la  sussistenza  di
alcuna «ipotesi eccezionale». 
4. La q.l.c. dell'art. 595 del codice penale. 
    Tutte le argomentazioni  sopra  esposte,  come  gia'  anticipato,
possono essere  estese,  mutatis  mutandis,  anche  alla  fattispecie
delittuosa di cui all'art. 595, comma 3, del codice  penale,  con  la
quale in caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa (o  con
qualsiasi altro mezzo di pubblicita'  ovvero  in  atto  pubblico)  il
legislatore punisce l'autore del reato con la  pena  detentiva  della
reclusione alternativamente alla  pena  pecuniaria  della  multa  non
inferiore ad euro 516. 
    La  fattispecie   in   questione,   infatti,   differisce   dalla
diffamazione a mezzo stampa aggravata di cui  all'art.  13,  legge  8
febbraio 1948, n. 47 soltanto perche', a differenza di  quest'ultima,
in essa non  viene  attribuito  un  fatto  determinato  alla  persona
offesa. 
    A  tale  proposito,  invero,  per  quel  che  qui  rileva,   deve
evidenziarsi che il dato normativo che la pena detentiva sia prevista
astrattamente solo come alternativa - e non  congiunta  -  alla  pena
pecuniaria non consente di poter  effettuare  valutazioni  differenti
rispetto a quanto tutto sopra considerato in merito alla tutela della
liberta' di espressione, di cui all'art. 21 della Costituzione  e  10
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle   liberta',   quest'ultimo   cosi   come   interpretato   dalla
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. 
    Difatti, come sopra ampiamente evidenziato, a  prescindere  dalla
scelta  di  voler  irrogare  concretamente  la  sanzione   pecuniaria
piuttosto che la pena detentiva, rimessa  alla  discrezionalita'  del
singolo giudice, tenuto conto di tutte le  contingenze  del  caso  di
specie e bilanciate tutte le circostanze (aggravanti  ed  attenuanti)
eventualmente ritenute sussistenti,  e'  gia'  la  stessa  previsione
astratta di una pena detentiva - quindi la  comminazione  legislativa
della stessa - ad essere eccessivamente limitativa  del  fondamentale
diritto  di  manifestazione  del  pensiero,  come  tale  in  evidente
violazione  degli  articoli  10  della  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e 21
della Costituzione. 
5. Parametri interni. 
    Oltre al parametro convenzionale interposto  dell'art.  10  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta',  rilevante  ai  sensi  dell'art.   117,   comma   1   della
Costituzione, e' evidente che le disposizioni normative qui in  esame
siano contrarie anche ai principi costituzionali di cui agli articoli
3, 21 e 25 della Costituzione. 
    Difatti, per tutte le argomentazioni sopra esposte, la previsione
- anche solo astratta -  di  una  pena  detentiva  per  il  reato  di
diffamazione a mezzo stampa sarebbe  manifestamente  irragionevole  e
totalmente sproporzionata rispetto alla liberta' di manifestazione di
pensiero, anche nella forma del  diritto  di  cronaca  giornalistica,
fondamentale diritto costituzionalmente garantito dall'art. 21  della
Costituzione,  la  cui  tutela,  in  assenza  di  contrari  interessi
giuridici interni prevalenti,  non  puo'  che  essere  favorevolmente
estesa nelle forme stabilite dalla giurisprudenza della Corte europea
dei diritti dell'uomo, eliminando cosi', salvi i «casi  eccezionali»,
anche la mera comminazione di qualunque pena detentiva. 
    Di conseguenza, a seguito di un  contemperato  bilanciamento  dei
diversi  valori   costituzionali   contrapposti,   la   liberta'   di
manifestazione di pensiero, da  un  lato,  e  la  liberta'  personale
dell'individuo, dall'altro, la previsione  legislativa  di  una  pena
detentiva per i reati a mezzo stampa risulterebbe finanche  contraria
al supremo principio costituzionale di  necessaria  offensivita',  di
cui  all'art.   25   della   Costituzione,   in   quanto   totalmente
sproporzionata, irragionevole  e  non  necessaria  rispetto  al  bene
giuridico tutelato dalle norme incriminatrici in questione, ovvero il
rispetto della reputazione personale. 
    In caso contrario, infine, nel mantenere la previsione della pena
detentiva nelle  fattispecie  di  diffamazione  a  mezzo  stampa,  vi
sarebbe anche un'evidente  violazione  del  principio  costituzionale
della funzione rieducativa della pena, di cui all'art.  27,  comma  3
della Costituzione, attesa la inidoneita' della  minacciata  sanzione
detentiva   a   garantire   il   pieno   rispetto   della    funzione
generaipreventiva e specialpreventiva della pena stessa. 
    Difatti, anche alla luce della  analizzata  giurisprudenza  della
Corte europea dei diritti dell'uomo, se la pena  detentiva  -  al  di
fuori dei casi eccezionali - e' sempre sproporzionata  rispetto  alla
liberta' di manifestazione del pensiero a mezzo stampa, da  un  lato,
dal  punto  di  vista  della  prevenzione  generale,  certamente   la
generalita' dei consociati non  sarebbe  culturalmente  orientata  ad
astenersi dal commettere una condotta diffamatoria a mezzo stampa per
la quale lo Stato italiano prevede una pena detentiva  che  pero'  la
Corte europea dei diritti dell'uomo ritiene sproporzionata e, quindi,
non irrogabile in concreto; dall'altro, invece,  e  soprattutto,  dal
punto  di   vista   specialpreventivo,   sicuramente   ogni   singolo
giornalista  e,  quindi,  il  direttore  responsabile  della  testata
giornalistica  non  sarebbero   effettivamente   dissuasi   dal   non
pubblicare articoli di stampa diffamatori, considerato  che  la  pena
detentiva prevista dalla legge italiana per tale  condotta  criminosa
comunque non sarebbe a loro applicabile in concreto, perche', secondo
la giurisprudenza Edu, considerata sempre sproporzionata e come  tale
«non   necessaria   in   una   societa'   democratica»,   in   quanto
eccessivamente limitativa della fondamentale liberta' di  espressione
garantita dall'art. 10 della Convenzione europea per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali  e  dall'art.  21
della Costituzione. 
    Per tutti i motivi sopra  esposti,  in  conclusione,  secondo  il
Tribunale,  deve  essere  sollevata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale degli articoli 595, comma 3, codice penale e 13  della
legge 8 febbraio 1948, n. 47, come indicato in dispositivo.